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Appunti

Giuliano santoro - Non mi chiedere se ho vinto o se ho perso


Eravamo i primi ad uscire per davvero dagli anni ottanta. Ma a dirla tuttail passaggio non fu così netto e radicale. Gli ottanta mi attiravano comesolo un oggetto proibito può fare. Erano gli anni della sconfitta,caratteristica che ai politici di mestiere potà sembrare cupa ma che a meappariva profondamente poetica. Ero inspiegabilmente attratto dal disastroumano e politico, dalla sincera crudezza che scorgevo proprio lì, dietrol¹angolo. Il passato si trova, oggi come allora, sia nel passato prossimorimosso che nel futuro negato.Uno che in quegli anni c¹era mi ha chiesto qualche settimana fa: «Ma lapensi ancora come qualche anno fa?». Gli ho risposto alzando il calice: «No,adesso sono meno moderato».Il posto non poteva che chiamarsi con un refuso: «Gramna» invece di «Granma»perché non li si prendesse troppo sul serio. Paoletto era anche alloraospitale e gentile. Mi diede il benvenuto nella nave dei folli, che già eraancorata al porto di Caricchio, e quando presi in mano un volantino delLeoncavallo mi disse che potevo tenerlo. Il Leoncavallo allora era ilLeoncavallo. Non c¹era ancora internet e per un imberbe già feticista dellacarta stampata quel volantino era una specie di reliquia.Mi ricordo di quando Ciccio ci trascinò, me e Vincenzo intimiditi, adaffiggere dei grandi manifesti gialli. Diceva: «AttacchinaRHe è bello, sista coi comBagniŠ Si socializza». Riempimmo la città con la figura di unuomo occhialuto legato. C'era scritto: «Certo che sono un uomo libero, ognicinque anni mi slegano e mi fanno mettere una croce su una scheda». E poi:«I centri sociali autogestiti non votano, lottano». Alla fineriattraversammo in macchina la città a pois gialli, da nord a sud e pensammofosse davvero nostra. Una volta Massimino da solo minacciò i fascisti delFronte della gioventù che attacchinavano e fu convocato dalla polizia.Allora partimmo tutti assieme da piazza Loreto e lo accompagnammo fino agliuffici della questura. L¹agente Digos gli disse: «E questi chi sono?». Luirispose «Ho tanti amici».Astolfo stava allo Stazzo e studiava gli esami di inglese coi testi deiClash. Me lo vedo ancora che accarezza la collezione di Guerin sportivo [«IGuerini su cumu i figli», dice] e ci chiama «Revisionisti» ridendosguaiatamente. La mattina tiravamo filone sempre più spesso e lo guardavamocon invidia uscire dalla sua stanza in pigiama grattandosi rumorosamente lacapigliatura. Poi si infilava una giacca ereditata dal nonno e uscivaruttando: «Se anche fossero le ultime duemila lire della mia vita, le usereiper fare colazione al Bar Dante». Una volta ci regalò dei poster inebrianti,nonostante lui fosse intriso di fatalismo e si salvasse con un¹ironiacorrosiva, senza pietà per nessuno. C¹erano due incappucciati che lancianomattoni su un tetto e la scritta «Quando ci vuole ci vuole».Era obbligatorio il cappuccino notturno all¹autogrill di Cosenza Nord conMarcantonio e le partite a pingpong allnightlong con Giovannino ed Emiliano.Non c¹erano «cornetterie» e bar notturni nella città che moriva di noia.I Volsci che portavano la Linea Politica da Roma e i compagni padovaniscrivevano documenti politici con parole misteriose e ipnotiche come«postfordismo» e «sussunzione».Mi ricordo i Nerds in acid che saltano all¹unisono sul palco e le assi dilegno che tremano.Mi manca Pippo, un uomo libero. Aveva un sorriso frequente e malinconico,ciondolante nelle mattinate d¹inverno a piazza Loreto, con il cappello e gliocchialoni e la diana blu sul marciapiede cazzeggiava col Marchesedisegnando mondi immaginari, impedendoti di inchiodarlo al realismo.Maruzzo snocciolava nomi di gruppi musicali e di città come se l¹Europafosse a nostra disposizione. Era il ribaltamento della logica corrente: ilmondo non finiva a Campagnano. Dino disegnava A4 bellissimi, semplici,eleganti e in bianco e nero, e stampava i bollettini Ecn con le notizie ditutto il mondo e degli altri centri sociali, facendoci sentire al centro delmondo e non in una città di provincia della Regione più povera d¹Italia.Mi ricordo tutte queste storie, le stesse che poi sono finite inun¹informativa della Digos che avrebbe fatto da impalcatura politica egiudiziaria per la grande montatura del processo Sud ribelle.Mi ricordo questo e molto altro. Mi ricordo che i Kina cantavano nellostanzone dei concerti «Non mi chiedere se ho vinto o se ho perso». Avevanoragione, non ha nessuna importanza chiedersi se abbiamo vinto o perso. Ma miricordo anche gli errori e le sconfitte. Perché senza questi ingredienti,senza la consapevolezza della memoria, rischiamo di essere retorici e falsicome i nostri nemici. Senza ridere e maledire al tempo stesso le cazzate e ifallimenti si oscilla tra mitizzazione e rimozione, tra nostalgia etradimento. Senza elaborazione collettiva, galleggiando tra i non detti e irancori dissimulati, saremo condannati per sempre alle macerie, anche se«ricominciare non significa ripartire da zero».Non sapevo, e non lo so ancora oggi, dove ci avrebbe portato questodrammatico alternarsi di risate rumorose e domande profonde. Vivevamo uncontinuo scarto tra la genuina dissacrazione etilica [delle generazioniprecedenti, degli «adulti», degli obblighi sociali] e una specie di serietàideologica [come si fa la rivoluzione dopo la fine della Rivoluzione?]. «Lascelta è compiuta, non possiamo fare altro», mi dicevo sempre. Mi sbagliavo,ma ero convinto che ci stessimo bruciando i ponti alle spalle e che nonsaremmo più potuti tornare alla «normalità», come se il tempo fosse unalinea retta. Leggevo avidamente le storie dei ribelli degli anni settanta,gli errori e le glorie dei movimenti sociali che avevano subito la violenzadella strategia della tensione, le eterne scorie del fascismo e delle tramepiduiste, la banalità del male del partito unico democristiano e lagrettezza del comunismo italico. Soprattutto, con lucidità preoccupante, miincuriosivano le storie della fine della rivoluzione. Mi interessava capirecosa succede ³dopo², quando bisogna incassare la sconfitta ma non perdere lafaccia. Magari reinventarsi sotto mentite spoglie e cominciare scavarecunicoli. O magari preparando la vendetta con spietata lucidità.